Articolo di Dorota Szelewa tratto da InGenere del 26 marzo 2015

Volete più figli?
Fate lavorare a casa i papà

Perché nascono così pochi figli in Europa? Sono ormai vent’anni che i governi europei interpellano team di esperti che fanno analisi, preparano rapporti e propongono soluzioni per stimolare la crescita demografica. Si dibatte sull’efficacia delle politiche che cercano di influenzare le scelte procreative delle persone.

Di solito, l’attenzione dei demografi si concentra tutta sulle donne: in primo luogo sulla loro scelta di avere o non avere figli e in secondo luogo su quanti figli decidono di avere.

Se l’obiettivo è quello di avere un ricambio generazionale un figlio solo non basta, bisognerebbe portare il tasso di fecondità a 2,10-2,15. Cosa peraltro fondamentale per la sostenibilità sul lungo periodo di welfare e previdenza e, allargando lo sguardo, per la sostenibilità di tutta la finanza pubblica.  Tutto questo, lasciando fuori altri scenari possibili come, per esempio, incentivare l’immigrazione per compensare il calo di fecondità, oppure un’eventuale desertificazione demografica dovuta a una crescita continua del numero di persone “childfree” (libere dai bambini) che deciderebbero comunque di non avere figli a prescindere da qualunque forma di sostegno i governi mettano in campo. In aggiunta, le previsioni economiche sulle evoluzioni della finanza pubblica cambiano nel tempo, è impossibile prendere in considerazione tutti i fattori, così come non è stato possibile predire il crollo demografico che sta vivendo l’Occidente.

L’Unione Europea ha centrato la sua programmazione politica per incentivare la crescita demografica sulla conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, ne è un esempio il documento di Barcellona che fissa degli obiettivi sulla copertura degli asili nido. Queste politiche prendono come riferimento i paesi scandinavi che insieme alla Francia garantiscono un’alta accessibilità ai servizi per l’infanzia, registrando conseguentemente un tasso di fecondità più alto che nel resto d’Europa. I servizi per l’infanzia sono sicuramente il pilastro più importante delle politiche per la famiglia, ma il secondo pilastro su cui poggia la fecondità sono i congedi di paternità come strumento di base per promuovere una maggiore distribuzione tra genitori del lavoro di cura.

In confronto con gli altri paesi europei, i paesi nordici hanno la situazione demografica più stabile e sostenibile. Avendo vissuto un calo demografico tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, alcuni paesi del nord Europa hanno infatti riformato le loro politiche della famiglia, e tra le misure adottate, ci sono state quelle per favorire un maggiore coinvolgimento paterno. Contemporaneamente per quei paesi la parità di genere è diventata prioritaria e come conseguenza oltre a garantire l’accessibilità ai servizi per l’infanzia, tra il ’90 e il 2000 hanno promosso ed esteso i congedi di paternità. Attualmente in Norvegia e in Islanda ci sono tre mesi di congedo, in Svezia sono due e si sta discutendo se introdurre il terzo, e in Finlandia madre e padre hanno nove settimane ognuno; la Danimarca è l’unico paese in cui ci sono solo due settimane di congedo di paternità. Secondo il Global Gender Gap Index, l’Islanda è il paese che garantisce le migliori condizioni per la parità di genere, uno degli indicatori che pesa in questo risultato è l’introduzione nel 2001 di un congedo di paternità di tre mesi, che fin dall’inizio è stato utilizzato da un numero altissimo di padri: ben il 90% [1]. E anche se il numero è calato leggermente durante gli anni della crisi, l’effetto della riforma islandese è un grande aumento nel coinvolgimento dei padri nella cura dei bambini che ad oggi è parte integrante della cultura genitoriale del paese. Prima, la pressione sociale per gli uomini era quella di essere i principali responsabili del mantenimento economico della famiglia e il congedo di paternità non si allineava con questo ruolo tipicamente maschile, ad oggi, la percezione della paternità è cambiata. I padri vengono giudicati “male” se non si allontanano dal lavoro almeno per un paio di mesi per prendersi cura del proprio figlio.[2]

C’è un nesso così forte tra demografia e uguaglianza di genere? Anche se la ricerca sulle scelte procreative degli uomini è piuttosto scarsa, basandoci sugli studi esistenti possiamo dimostrare come i congedi di paternità rappresentino uno degli strumenti cruciali per dare slancio alla fecondità.

Iniziamo con le preferenze per quanto riguarda la scelta di fare figli; metodologicamente è molto difficile che le persone interpellate rispondano quello che davvero vogliono: potrebbero non esserne completamente convinte, ma confermare quello che pensano ci si aspetti da loro. Ma lasciando da parte queste considerazioni, e senza dare troppo peso a come è stata loro posta la domanda, sia uomini che donne dichiarano che vorrebbero avere due figli. C’è una piccola discrepanza di genere, gli uomini rispondo in media che vorrebbero più figli, succede in Polonia (uomini: 2,41/donne: 2,05), Portogallo (uomini: 2/donne: 1,71), Cipro (uomini: 2,87/donne: 2,65), Germania (uomini: 2,17/donne: 1,96).[3] Non stupisce che questi paesi non siano proprio in cima alla classifica della parità di genere, e sono spesso classificati come regimi di genere di tipo “familistico” o basati sull’uomo breadwinner (principale procacciatore di reddito). Il grafico 1 mostra le preferenze procreative di uomini e donne in Polonia, in due diverse situazioni: 1) persone giovani tra i 18 e i 24 anni senza figli e 2) persone trai 30 e i 34 anni che hanno almeno un figlio. Mentre le donne più giovani desiderano molto più dei loro coetanei di avere un figlio, questa situazione cambia subito dopo l’arrivo di un bambino in famiglia quando, mentre il 35% degli uomini vorrebbe altri figli, l’entusiasmo delle donne dopo la prima esperienza di maternità è drasticamente precipitato.

Perché succede? Perché l’esperienza di avere un figlio scoraggia le donne dal farne altri, mentre gli uomini rimangono aperti alla possibilità di averne ancora? Il grafico sotto mostra quanto si impegnano gli uomini nei lavori domestici, gettando una nuova luce sul perché le donne che non vogliono fare figli sono quelle dei paesi in cui c’è maggiore squilibrio nella distribuzione del lavoro domestico (ossia in cui gli uomini fanno molto meno).

Alcuni studi dimostrano come ci sia un legame causale tra l’impegno degli uomini e la voglia delle donne di avere più figli; per esempio, uno studio comparativo tra famiglie ungheresi e svedesi ha concluso che, nonostante il contesto culturale sia completamente diverso, c’è una correlazione valida per entrambi i paesi tra una distribuzione più paritaria dei lavori domestici e la probabilità di avere un secondo e addirittura terzo figlio.[4]

Fin qui tutto chiaro, ma possiamo davvero fare in modo che gli uomini si prendano più cura dei bambini? O la ‘quota papà’ funziona solo nelle società più progressiste mentre per tutti gli altri “congedo di paternità” significa obbligare i padri a prendersi una pausa dal lavoro contro la loro volontà e quando rientrano al lavoro tutto ritorna come prima? La ricerca sui comportamenti paterni riconferma l’importanza di congedi esclusivi (non trasferibili) per i padri.  Per esempio, secondo Nepomnyaschy e Waldfogel, i papà che prendono congedi di paternità più lunghi (almeno due settimane) a nove mesi di distanza hanno maggiori possibilità, rispetto agli uomini che non hanno preso il congedo, di ritrovarsi a svolgere compiti quotidiani legati alla cura dei bambini, come cambiare pannolini, preparare il cibo o dar loro da mangiare.[6]  Secondo lo studio di Jennifer Hook,[5] vi è una generale correlazione positiva tra politiche che promuovono una maggiore parità in famiglia e l’accrescimento del coinvolgimento paterno. Il fenomeno degli uomini che condividono di più il lavoro domestico in seguito a un congedo di paternità potrebbe essere interpretato come una specie di ‘straripamento’ del lavoro di cura svolto dagli uomini durante il congedo.

Ora, se torniamo al rapporto tra il coinvolgimento dei padri e la propensione delle donne a fare figli (specialmente dopo il primo), potremmo avere la risposta al perché un congedo di paternità esclusivo e obbligatorio funziona per far crescere la fecondità. In altre parole, le donne non vogliono fare figli con uomini che non si occupano dei propri bambini, e il miglior modo per incoraggiare i padri a cambiare il loro atteggiamento è di offrirgli la possibilità di prendere congedi individuali e non trasferibili per un tempo abbastanza lungo. L’effetto del congedo di paternità va quindi ben oltre l’effetto immediato di promuovere una maggiore condivisione del lavoro di cura.

Ma per funzionare bisogna che i congedi abbiano, in contemporanea, i seguenti requisiti:

  • Il congedo deve essere individuale e non trasferibile. Quando è la coppia genitoriale ad avere diritto al congedo sono soprattutto le donne ad utilizzarlo. Questo avviene sia per i condizionamenti di genere su maternità e lavoro di cura, ma anche per motivi meramente economici: siccome molti uomini guadagnano più delle loro compagne e il congedo non viene quasi mai retribuito al 100%, la famiglia perde di più se è il padre a prendersi una pausa dal lavoro. Con almeno due-tre mesi riservati al padre, il tempo che invece si prende la madre diminuisce: questo manda un segnale importante anche ai colleghi e al datore di lavoro, veicolando l’idea che prendersi cura dei figli non è una responsabilità principalmente femminile, cosa che può arginare la discriminazione delle donne sul mercato del lavoro.
  • Il congedo deve essere accompagnato da un buon livello di retribuzione. I congedi non retribuiti o retribuiti in maniera simbolica non funzioneranno mai per motivi economici (si veda il punto 1). Più grande la perdita economica e minore la possibilità che il padre prenda il congedo, anche se ne è ha diritto.
  • Il periodo di congedo dovrebbe essere abbastanza lungo, minimo un mese, auspicabilmente due o tre, altrimenti gli effetti del congedo sulla divisione del lavoro di cura nella famiglia potrebbero non essere significativi. I padri devono prendersi il tempo necessario per entrare realmente nella routine della cura della casa e dei figli, come per esempio cucinare per i bambini ma anche per la moglie che lavora.

Non sto dicendo che tutti dovrebbero avere una grande famiglia. Alcune famiglie potrebbero scegliere di avere un unico figlio, a prescindere da tutto, altre coppie potrebbero decidere di non averne mai, mentre altre ancora potrebbero pensare che il mondo è abbastanza affollato e scegliere la via dell’adozione. Ma quelli che invece desiderano avere figli, tutti quelli che ne vorrebbero almeno due, hanno bisogno di un sostegno adeguato. I governi europei vogliono incrementare la fecondità? Allora devono convincere i papà a lavorare di più… a casa.

NOTE

[1] Ásdís A. Arnalds, Guđný Björk Eydal and Ingólfur V. Gíslason. 2013. “Equal rights to paid parental leave and caring fathers ‐ the case of Iceland”. Icelandic Review of Politics and Administration, 9 (2): 323‐344.

[2] Commento da attribuire a Hrannar Björn Arnarsson.

[3] Eurobarometer, 2006, Childbearing preferences and family issues in Europe.

[4] Olah L. 2003. “Gendering fertility: Second births in Sweden and Hungary”. Population Research and Policy Review, 22 (2): 171-200.

[5] Nepomnyaschy L. and  J. Waldfogel. 2007. “Paternity leave and fathers’ involvement with their young children: Evidence from the American ECLS-B”. Community, Work and Family, 10: 427-453.

[6] Hook J. L. 2006. “Care in Context: Men’s Unpaid Work in 20 Countries, 1965-2003”. American Sociological Review, 70:639-660.